
Anche senza bottino, i cacciatori rientrano felici
La caccia riveste un'importanza particolare nei Grigioni, più che in qualsiasi altro cantone della Svizzera. Durante il periodo di caccia, dietro ogni secondo albero potrebbe nascondersi un cacciatore che attende pazientemente la sua preda. Sono circa 5 500 quelli che ogni anno a settembre partecipano alla caccia alta nei Grigioni. Ho accompagnato due di loro.
Alla fine della giornata siedo esausto, sudato, affamato e con un ginocchio dolorante. Claudio mi porta qualcosa da bere, mentre Marco si mette davanti al rifugio di caccia e dice: «La brace è calda e l'insalata è pronta. Metto le salsicce sul fuoco. In dieci minuti sarà tutto pronto». Vorrei abbracciarlo, ma dopo due giorni di caccia alta nei Grigioni in Val Calanca sono contento di tornare presto a casa. Ma andiamo per ordine.

Due giorni prima
Partenza da Coira. Ho un appuntamento con Marco, uno dei due cacciatori che gestisce uno studio di fisioterapia nella capitale del Canton Grigioni. Ci dirigiamo verso la Val Calanca. Da Arvigo, una piccola strada conduce al rifugio di caccia a circa 1500 metri di altezza. La strada stretta si snoda in serpentine dalla valle su per la montagna. La sera prima dell'apertura della caccia, è permesso guidare fino al rifugio. In seguito, l'auto deve essere parcheggiata nel paesino più vicino.
Sono quasi le 22 e i fari dell'auto di Marco abbagliano di continuo l'uno o l'altro animale selvatico. Sulla via verso il rifugio contiamo ben sette cervi. Tre di essi sarebbero cacciabili a partire dall'alba fino alle 19:45. Dopodiché diventa troppo buio per sparare. Ma non si può cacciare tutto: infatti, se un animale può essere cacciato o meno dipende, tra le altre cose, dal sesso e dall'età della selvaggina. È una cerva, un cervo adulto o un cerbiatto? Oppure è un giovane animale dell'anno scorso? Molti altri punti determinano la «cacciabilità» di un «pezzo di selvaggina», come si dice nel gergo venatorio. Come faccia Marco a riconoscere tutto questo dalla macchina e in una frazione di secondo rimane un mistero per me. Infatti, i cervi, spaventati dai fari, spariscono in un istante nella foresta. 30 anni di esperienza di caccia hanno probabilmente lasciato il segno.
Finalmente arriviamo al rifugio, dove Claudio ci aspetta già con formaggio, Salsiz e pane.
Una giornata quasi da dimenticare
Il mattino seguente piove. La sera prima, Claudio e Marco hanno studiato le previsioni del tempo, decidendo di non partire fino alla fine della giornata. Per me, questo vuol dire dormire più a lungo, ma nel rifugio di caccia significa alzarsi alle sette. Va bene comunque. Per le prossime due notti non riuscirò a dormire così tanto come stanotte. Ma per fortuna, in questa grigia mattinata, ne sono ancora ignaro. Durante il caffè mattutino, i due cacciatori si chiedono se il cervo che abbiamo visto ieri sera sul tragitto verso il rifugio sia in giro da qualche parte in zona anche oggi. C'è ottimismo nell'aria.
Claudio e Marco passano il resto della mattina a fare piccoli lavori al rifugio. C'è sempre qualcosa da fare. Ad esempio, rimuovere i chiodi che fuoriescono dalle travi di legno del magazzino e su cui è facile impigliarsi. Una cosa tira l'altra e l'ora di pranzo arriva in fretta: spaccare la legna, accendere il grill e preparare l'insalata.

Comincio quasi ad annoiarmi e voglio far passare la giornata in fretta, quando finalmente, alle 16, andiamo a caccia. Nel frattempo, il sole ha preso il sopravvento, mostrandosi tra i ciuffi di nuvole. Claudio e Marco vogliono appostarsi in una zona che hanno battezzato «Paradies». All'inizio dell'estata, i cacciatori hanno esplorato dei luoghi per appostamenti e hanno dato loro dei nomi che ne descrivono il terreno – «Unter der Strasse», «Gamsboden», «Paradies», ovvero «Sotto la strada», «Terreno dei camosci» e «Paradiso».
Ricordo questo «Paradies», che per me è più un inferno. A giugno, ho accompagnato i cacciatori durante i preparativi per la caccia e ho già avuto l'occasione di percorrere il terreno accidentato e in pendenza su per la montagna. Non ho potuto raggiungere la cima insieme a loro. L'idea di tornare in questo angolo di natura incontaminata mi dà ancora oggi una sensazione spiacevole. Il sentiero passa attraverso un terreno impraticabile, ruscelli ed erba alta e bagnata, conducendoci oltre cespugli di ontano ad altezza uomo e passaggi di selvaggina. Ogni passo è una sfida, farne uno falso potrebbe avere addirittura conseguenze fatali. Claudio e Marco lottano con il terreno, dovendo regolarmente trovare un posto a cui aggrapparsi e scivolando di continuo. Sono sollevato dal fatto di non essere l'unico. Non c'è traccia del cervo della sera prima.

«La selvaggina si adatta a noi cacciatori», dice Claudio. Quando gli chiedo cosa intende, il biologo spiega che i cervi e tutti gli altri animali si sono adattati ai ritmi della caccia. Ad esempio, la selvaggina va sempre più spesso in giro di notte, mentre durante il giorno si nasconde sotto i cespugli di ontano. Questa ipotesi è confermata anche dalle registrazioni delle telecamere che i cacciatori hanno distribuito in zona prima della caccia alta dei Grigioni.


Alle sei e mezza raggiungiamo finalmente la zona dove Claudio e Marco vogliono appostarsi. Ci piazziamo come meglio possiamo su un ripido pendio tra l'erba alta e aspettiamo.
Tre quarti d'ora dopo, non solo il sole sta tramontando, ma anche la mia concentrazione: sto per appisolarmi. Un'altra mezz'ora di attesa, poi si torna al rifugio. Penso già che sia stata una giornata da dimenticare, quando improvvisamente sento Claudio sussurrare eccitato: «Cervo, cervo». Improvvisamente sono sveglio e comincio a cercare con entusiasmo il binocolo nel mio zaino. Ce l'ho appeso al collo. Il mio nervosismo non è passato inosservato al cervo distante esattamente 91 metri, il quale guarda attentamente verso di noi. Sembra guardarmi dritto negli occhi. Claudio mi esorta a stare zitto e immobile.

«Puoi abbatterlo?», sussurro a Claudio. Ricordo il viaggio in macchina la sera prima con Marco e la conversazione sui molti requisiti che devono essere soddisfatti prima di poter sparare. Oltre all'età, il cacciatore deve anche determinare se l'animale può essere recuperato dopo un colpo riuscito, se si tratta di un colpo sicuro (bullet trap) e molto altro. Nel frattempo, il giovane cervo è andato avanti e ora pascola a circa 140 metri da noi. Un cacciatore può sparare fino a una distanza di 200 metri se tutte le condizioni sono soddisfatte. «Quindi? Puoi?», chiedo. Claudio guarda attraverso il suo cannocchiale di puntamento e dice di no. Il cervo è troppo giovane: è nato in giugno, quindi non può essere cacciato prima di settembre dell'anno prossimo. Buon per lui.
Ci incamminiamo verso casa a mani vuote. Lungo il tragitto capisco perché la caccia è permessa fino alle 19:45 e non più tardi. Alle otto è infatti buio pesto nel bosco e continuo a inciampare dietro ai due cacciatori. Sembra che abbiano la visione notturna incorporata negli occhi. Camminano veloci e sicuri per le ultime centinaia di metri fino al rifugio. Nel frattempo, io ho attivato la torcia del mio smartphone. Mi scuso con tutti i gufi e gli altri animali selvatici che posso aver spaventato.
Arriviamo al rifugio: doccia, cibo, letto. Non si può fare altro per oggi. Una giornata quasi da dimenticare volge al termine. Abbiamo potuto osservare il cerbiatto per alcuni minuti. Che spettacolo. Vado a dormire totalmente sollevato dal fatto che non sia stato ucciso.
Una giornata memorabile
Il mattino seguente, alle cinque, Claudio è in piedi accanto al mio letto: «Vuoi un caffè? È ora di alzarsi, partiamo tra un'ora». Per colazione, mi concedo alcuni dei migliori bastoncini alle nocciole del mondo, preparati da Claudio il giorno prima, e ne metto alcuni nello zaino per il viaggio, insieme a un sacchetto di frutta secca e noci miste. Prima dell'alba partiamo per il Mot Ciarin, il cui culmine del passo si trova a poco meno di 2 200 metri di altezza.


In pochi chilometri copriamo più di 500 metri di altitudine. Questo significa che all'andata io e Claudio camminiamo sul fianco della montagna a strapiombo. È faticoso, ma non quanto la strada del ritorno. Ma ne parlerò dopo... Camminiamo letteralmente andando incontro all'alba, uno spettacolo maestoso. Il panorama montuoso è mozzafiato.

Il sole nascente illumina le cime intorno a noi di una luce ambrata. Mi fermo ad assaporare questo momento. Poi andiamo avanti in silenzio. Un misto di umiltà e gratitudine si diffonde in me.

Claudio interrompe improvvisamente i miei pensieri: «Sarebbe una bella foto». Nel frattempo, raggiungiamo un altopiano attraversato da alcune piccole cascate. A un certo punto l'acqua ristagna, formando una piccola piscina a sfioro. «Entra e ti scatto una foto». Rifiuto, ma Claudio insiste per farmi entrare nell'acqua ghiacciata. Dopo una breve discussione, finalmente decido di spogliarmi lasciando addosso solo le mutande. Spero che nessun altro cacciatore ci stia guardando con il suo binocolo. Potrebbe fraintendere la scena.
Ed è così che è nata questa foto:

Dopo quattro ore di cammino e qualche pausa (balneare) raggiungiamo la zona del Mot Ciarin, dove Claudio vuole appostarsi. Forse oggi avremo più fortuna con i cervi. È tempo di recuperare le forze e di sorvegliare il terreno con il binocolo. Tuttavia, non si vedono né cervi né caprioli né camosci. Stiamo per fare i bagagli e tornare indietro, quando Claudio individua una marmotta. Un bell'esemplare di grandi dimensioni che corre freneticamente avanti e indietro tra le colline.
Con il telemetro del suo binocolo, Claudio determina la distanza tra noi e la marmotta: circa 170 metri, a volte meno, a volte più. Ma anche se il cacciatore è generalmente autorizzato a sparare tra 0 e 200 metri, la distanza è troppo ampia per colpire la marmotta. Una regola non scritta dichiara infatti che per una marmotta non dovrebbero esserci più di circa 50 metri di distanza.
Anche il piccolo mammifero sembra conoscere questa regola e gioca con noi al gatto e al topo, o meglio, alla marmotta e al cacciatore per un'ora e mezza. A volte è a 100 metri, a volte a 190 e a volte a 70. Tuttavia, non è mai a meno di 50 metri. Dopo 90 minuti, ne abbiamo abbastanza, diciamo alla marmotta «In bocca d'luf», un saluto da cacciatore che augura buona caccia, e torniamo al rifugio.


La via del ritorno... se 500 metri in salita sono già faticosi, in discesa per me lo sono ancora di più. Questo è dovuto principalmente al mio ginocchio sinistro malconcio, che è stato un po' danneggiato da anni di jogging – danni alla cartilagine eccetera eccetera. Camminare a lungo in discesa è terribile: ogni passo è un colpo e questi colpi si accumulano in un dolore lancinante che aumenta gradualmente. Dopo due ore, arrivati al rifugio, il buon umore che avevo nella «piscina a sfioro» è sparito.
Siedo esausto, sudato, affamato e con un ginocchio dolorante. Claudio mi porta qualcosa da bere, mentre Marco si mette davanti al rifugio di caccia e dice: «La brace è calda e l'insalata è pronta. Metto le salsicce sul fuoco. In dieci minuti sarà tutto pronto». Vorrei abbracciarlo.
Per concludere la caccia alta del 2021, ci rilassiamo davanti al rifugio. Marco ha preparato delle candele finlandesi che accendiamo per l'occasione.

Più tardi in serata ci prepara un tradizionale «Prättigauer Käsegetschädder», una sorta di fondue con latte e cipolle, al posto di vino bianco e aglio. Padella sul tavolo, cucchiaio in mano e tutto va per il meglio.

Epilogo
In passato, quando sentivo la parola «caccia», mi venivano in mente solo signori anziani che si recavano ai margini di un campo di mais nelle loro Volvo station-wagon, si appostavano nelle sedute rialzate, sparavano a un cervo, lo caricavano in auto e tornavano a casa. Forse è davvero così nella caccia in riserva. Non ne so nulla. Ma dopo questa esperienza, non ho più la presunzione di giudicare se la caccia in sé sia eticamente giustificabile o effettivamente necessaria da un punto di vista biologico. Dato che mangio carne e che la compro per la maggior parte nei supermercati, farò attenzione a non dare consigli a un cacciatore su questo tema.
Un animale selvatico non proviene da un allevamento, ma passa tutta la sua vita in libertà e, se il cacciatore fa bene il suo lavoro, non deve soffrire. Secondo questo principio, la carne di selvaggina dovrebbe essere quindi veramente sostenibile, contrariamente al resto che non lo è o solo parzialmente. Di conseguenza, noi mangiatori di carne dovremmo coprire i nostri fabbisogni con la caccia o fare a meno della carne.
Cos'altro ho imparato dalla caccia alta nei Grigioni? Che ho già un deficit di sonno dopo due giorni, che non mi piacciono le discese, che il buon cibo è essenziale per il morale, che un cacciatore può essere felice anche se rientra a mani vuote, che abbiamo perso nel gioco del cacciatore e della marmotta e che le montagne sono preziose per la mia salute mentale e il mio benessere. Per tutto questo, ringrazio Claudio e Marco dal profondo del mio cuore.
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Da giornalista radiofonico a tester di prodotti e storyteller. Da corridore appassionato a novellino di gravel bike e cultore del fitness con bilancieri e manubri. Chissà dove mi porterà il prossimo viaggio.